“Siamo antifascisti perché la nostra patria
non si misura a frontiere e cannoni,
ma coincide col nostro mondo morale e con la patria
di tutti gli uomini liberi.”
Carlo Rosselli
“Carlo e Nello Rosselli.
Giustizia e Libertà.
Per questo morirono.
Per questo vivono.”
Epitaffio sulla tomba dei Fratelli Rosselli.
Arrivò con mezz’ora di anticipo al bar dove aveva l’appuntamento e ordinò una spuma. Piazza San Babila era sotto un sole cocente e l’afa incollava i vestiti al corpo.
Una percezione di calore, mai così simile a quella provata quando si trovava soldato durante la guerra di Etiopia. Già, l’Etiopia e il ritorno da quel luogo soltanto qualche mese fa. Un ritorno che l’aveva visto cambiato.
- Ecco la sua spuma signore. Desidera qualcos’altro?
- No, la ringrazio.
Dal mobile radio all’interno del bar, la Eiar mandava le note di “Parlami d’amore Mariù”, un brano che lui amava molto, un brano che spesso cantava alla Gisella, il suo grande amore. Fu costretto a salutarla la sera prima, di nascosto, all’interno di un androne di un palazzo non lontano da casa di lei. La riempì di baci e abbracci inebriandosi del suo profumo di lavanda. Lei gli rivolse una sola domanda:
- Quando tornerai?
Non aveva risposto, lasciando al silenzio la spiegazione di quello che con le parole non sarebbe riuscito a spiegare.
Quando sarebbe tornato? Pensava seduto a quel tavolino del bar, guardandosi in giro di continuo, mentre aspettava il Pierozzi, la persona che avrebbe dovuto consegnarli, il lasciapassare per una nuova vita e una nuova identità.
Sicuramente non sarebbe potuto tornare, fino a quando il fascismo sarebbe stato al potere e quel porco del Duce al comando della nazione.
Lui, Marco Malpezzi, classe 1910, figlio di una famiglia borghese, proprietaria di un noto negozio di cristallerie del centro. Figlio di un reduce che aveva combattuto sul Piave durante la grande guerra, facendosi onore.
Unico maschio di cinque figli, orfano di madre, appena dato alla luce e cresciuto con grande orgoglio da un padre e dal nonno, autoritari e fascisti della prima ora che gli imposero, oltre a una educazione in perfetto stile balilla, anche la partecipazione ai sabati fascisti, cosa che aveva sempre detestato insieme alla dannata camicia nera.
Avrebbe tanto voluto giocare a pallone nella sua amata Ambrosiana, magari facendo da spalla a Meazza, avendo dei piedi niente male, ma il padre gli impose la carriera militare e per non deluderlo accettò, suo malgrado, quel destino.
Così, come molti altri ragazzi, si trovò coinvolto nella guerra di Etiopia, convinto che la conquista di una colonia, avrebbe dato prestigio alla sua Patria. Credeva, in cuor suo, potesse essere un conflitto veloce e senza grandi spargimenti di sangue, non solo fra i commilitoni ma anche fra i civili del luogo. Si sbagliava e lo capì subito, quando, comandato dal generale Graziani, dislocato nella Somalia italiana, irruppero in Etiopia. La resistenza fu piegata in poco tempo, ma i modi per piegarla e l’orrore con il quale l’esercito trattò quegli uomini sconfitti e la brutalità usata verso donne, bambini e anziani lo fecero inorridire e protestare per poi finire arrestato come traditore e disertore, rischiando anche la corte marziale.
Al rientro in patria, non finì a processo e al confino, grazie all’intervento del padre, amico di un alto funzionario e a qualche lira, finita casualmente nelle tasche di alcuni zelanti dirigenti. Tuttavia, una volta libero, non solo si allontanò definitivamente dal padre, divenne anche un convinto antifascista, entrando a fare parte del movimento clandestino Giustizia e Libertà.
Denunciato, visse gli ultimi mesi in clandestinità, partecipando alla stesura di ciclostilati contro il Duce e la sua politica, aiutato da altri compagni d’avventura.
Ma un mese fa, due uomini dell’OVRA, la polizia segreta fascista, tesero un agguato a un ragazzino che portava loro dei viveri e, se non fosse intervenuto, lo avrebbero di certo ucciso a suon di botte per strada.
Volevano che sputasse fuori, insieme ai denti, l’indirizzo del covo degli antifascisti. Il caso volle che, proprio in quel momento, lui stesse tornando da un appuntamento con Gisella e intervenne, uccidendone uno con una bastonata sulla testa e ferendo l’altro, non solo salvando il ragazzo, ma anche sé stesso e i suoi compagni. L’aria, da quel momento, si fece davvero troppo pesante. Doveva andarsene e in fretta.
Ecco perché stava aspettando il Pierozzi, in incognito, con i capelli e i baffi biondi, lui che i capelli li aveva neri come la notte. La sua destinazione sarebbe stata Parigi, per raggiungere i compagni in esilio e continuare le sue battaglie da lì, insieme ai fratelli Rosselli.
Dalla radio, ora, uscivano le notizie della giornata e al banco del bar due camicie nere, conversavano con il barista.
Dalla strada, una donna fasciata in un tailleur e con in mano una sigaretta spenta, attirò la sua attenzione, mentre procedeva a grandi falcate verso il suo tavolino.
- Ha da accendere?
- Certo signorina.
- Malpezzi, il Pierozzi non arriverà mai. L’hanno beccato ieri sera e ora e a San Vittore. Non muoverti e non parlare. Qui ci sono i documenti per espatriare e il tuo treno parte tra un’ora. Ti stanno osservando. Vedi quello che legge il giornale all’angolo?
- Sì
- È dell’OVRA, speravano di trovarti con qualche capo. Ora mi allontanerò velocemente e tu andrai in bagno nel cortile sul retro e da lì uscirai. Stai attento e in bocca al lupo compagno.
La signorina si allontanò a passo sostenuto cercando di scomparire più velocemente possibile. Malpezzi fece un cenno al cameriere per il conto, per poi recarsi in bagno, tutto lentamente per non dare nell’occhio. L’uomo dell’OVRA si mosse verso il bar con passo spedito. Arrivato davanti al bagno, aprì la porta con un calcio, trovandolo vuoto.
Malpezzi uscito dal retro era già salito su un taxi in direzione Stazione Centrale. Forse lo stavano seguendo e aveva i minuti contati. Da adesso, si sarebbe chiamato Giuseppe Medici, commerciante di tessuti.
Si fece lasciare dal tassista, all’ingresso laterale della stazione: di corsa e con il cuore in gola salì le scale per arrivare ai binari. Nessun bagaglio, solo lui e la sua nuova identità. Il suo treno era in partenza al binario dieci.
Delle camicie nere camminavo avanti indietro davanti al binario. Cercò di non scomporsi, di non dare nell’occhio e di raggiungere il suo vagone.
Una volta sul treno attese la partenza con trepidazione, tirando un sospiro di sollievo al fischio del capostazione.
Era fatta, ora doveva solo superare i controlli alla dogana tra Italia e Francia e poi via verso Parigi, dove sarebbe arrivato il giorno successivo, se tutto fosse andato per il verso giusto.
Partiva da uomo braccato, ma sarebbe tornato da uomo libero, ne era sicuro, combattendo contro tutto quello schifo, rifletteva durante il viaggio guardando il mondo dal finestrino, sapendo che, prima o poi, quella dittatura sarebbe crollata.
Parigi, una nuova vita. Parigi per respirare aria di libertà.
Rocco Carta