“Non perdere la voglia di camminare: io,
camminando ogni giorno,
raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno;
i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo,
e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata…
ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati…
Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.”
(Bruce Chatwin)
Le diede un bacio sul collo, indossò il cappotto e scese le scale del condominio dove vivevano, uno stabile anni ‘70 in attesa da anni di un po’ di manutenzione, ma tutto sommato decoroso.
Si ritrovò in strada, in una fredda serata di gennaio, avvolta da un velo di foschia. Un gatto lo fissò e lo seguì con lo sguardo intimorito per qualche istante. Imboccò la prima via a destra, dove, all’interno di uno sportello bancomat, riparato ma non chiuso da porte, cercava un po’ di calore e un rifugio per la notte un senzatetto. Gli si avvicinò e, sfiorandogli una spalla, infilò nel cappello posato a terra una banconota da 10 euro, così, senza chiedergli di dove fosse e perché si trovasse in quelle condizioni. Pensò soltanto di avere, di fronte a sé, un’altra vittima del capitalismo scellerato. L’uomo non emise parola, ma ricambiò la generosità con un sorriso composto dai pochi denti rimasti. Si rimise in cammino.
Ma perché si trovava in strada a quell’ora? Se lo chiese nel tentativo di recuperare la motivazione che l’aveva condotto fuori dalla sua tana. La sua tana, sì, come se fosse un animale. Un animale ferito. Finì con i piedi dentro una pozzanghera e quasi gli venne la voglia di imprecare. Ma poi, imprecare contro chi, se non contro sé stesso?
Era uscito di casa per riflettere su come poter mandare avanti e risanare il rapporto con la compagna di una vita. “Compagna”: aveva detto sempre così alle persone a cui l’aveva presentata. La stessa cosa faceva lei. Entrambi lo preferivano a marito e moglie, un po’ perché non amavano le etichette che il sistema impone, un po’ perché avevano gli stessi ideali, per cui quel termine, “Compagni”, ha un valore simbolico immenso.
Sentiva che tutto si stava spegnendo. Erano lontani, stanchi, sfiancati da mesi di discussioni. Da settimane non riuscivano neanche a trovare un momento per fare una passeggiata insieme o forse, in realtà, proprio quel tempo insieme si cercava di schivare.
Eppure il loro rapporto era stato amore, passione, sesso, divertimento e condivisione di idee. Che cosa aveva aperto ferite talmente grandi da non riuscire a rimarginarsi?
Non aveva la più pallida idea di come far riaccendere tutto ciò che oramai sembrava spento. Si sentiva in colpa e si sentiva in colpa anche la sua compagna. Quel dannato senso di colpa che imprigiona e non lascia aria. Non concede tregua. Sospirò e decise di voltare ad un angolo, per imboccare una strada che l’avrebbe ricondotto a casa.
La via era piena di negozi aperti fino ad ora tarda. C’erano pub, agenzie di scommesse pronte a mandare sul lastrico chi vi si fosse avventurato, mini market, negozi di chincaglierie varie e gli immancabili “centri massaggi” cinesi che poco spazio lasciavano all’immaginazione.
Ad un tratto l’occhio cadde su un negozietto da un’unica vetrina. L’insegna specificava che si trattava di una merceria/sartoria. Al suo interno si trovavano vestiti, borse, grembiuli e tanto altro, appesi o buttati su tavoli, alla rinfusa. Lo colpì la figura di una donna, presumibilmente la proprietaria del negozio: una signora orientale sui settant’anni. Stava seduta con la testa piegata su una tuta da lavoro, appartenente sicuramente a qualche operaio. Era strappata in più punti e la signora cercava di ricucirla con tanta pazienza e dedizione, che stare lì a guardarla gli fece inumidire gli occhi. Pensò, mentre continuava ad osservare quel lavoro certosino: “ma che senso ha ricucire qualcosa che può essere sostituito?”.
Si domandava, mentre la signora continuava la sua opera, se anche lei si fosse posta la stessa domanda, appena vista la tuta e il suo stato. D’improvviso la signora alzò lo sguardo e lo volse, dritto, verso la vetrina, dove incrociò gli occhi di quell’improvvisato spettatore. Gli rivolse un garbato sorriso e tornò a capo chino al suo lavoro.
Fu in quel momento che decise di riprendere il suo cammino. Nella testa non smetteva di insinuarsi l’immagine di quella tuta logora e piena di strappi, di quella signora e, ossessivamente, il verbo “ricucire”. Cominciò a dare un senso a quella passeggiata e bisbigliò, tra sé e sé: “ricucire con pazienza ciò che altrimenti verrebbe sostituito!”.
Un sarto! Sarebbe dovuto diventare abile con l’ago e il filo dei sentimenti, per fare in modo che, quel prezioso vestito cucito addosso con amore a lui e alla sua compagna, tornasse ad essere integro e senza strappi, ma, soprattutto che non venisse sostituito con qualcosa da non potere più indossare in due. Quello era il significato che cercava nei passi stanchi di quell’escursione notturna.
Tirò fuori le chiavi di casa e aprì la porta: la trovò seduta sul loro divano di fronte alla televisione, quasi ipnotizzata. Forse sovrappensiero. Avvicinandosi le diede nuovamente un bacio sul collo, nello stesso punto di quando era uscito, le carezzò i capelli e, con una mano, tra l’incredulità e lo stupore di lei, le slacciò la camicetta e iniziò a ricucire …
Rocco Carta
N.d.A
Pubblicato in precedenza il 10/12/2016 su Psicoterapiaimmaginativa.com