Tu non sai morire.
Un’amica, scuotendo il capo con dolcezza, me lo disse un giorno, girando l’indice sul bicchiere vuoto di un aperitivo. C’era amore, in quelle parole, e fierezza e ammirazione.
A volte ci penso, mentre rivedo i suoi occhi color miele e le labbra lucide di Campari: io ho davvero sfiorato la morte mille volte. La morte fisica, intendo, senza morire.
Una da bimbo.
Una Charms, quelle caramelle quadrate di zucchero durissimo al gusto di frutta e incartate nella plastica trasparente, mi scivolò in gola. La stavo ciucciando soddisfatto, gustandomela come solo i bambini sanno gustare i piaceri semplici, prima di entrare nella clinica dove mio fratello era nato da poco.
A un certo punto me la ritrovai conficcata in gola e cominciai a boccheggiare.
Mio padre, allarmatissimo, mi prese per le gambe e mi ribaltò e imprecò e invocò il suo Dio e mi picchiò la schiena e mi urlò di tossire finché non espulsi quella morte zuccherosa dalla gola.
Non pensavo a questo episodio da tanti anni: adesso vedo nitidamente i contorni della clinica, e della macchina sulla quale viaggiavo con mio papà e ricordo il sapore dolciastro alla ciliegia di quella caramella assassina. E penso con nostalgia a quel bambino con gli occhi enormi che era contento di essere in macchina col papà, in giro per la grande città.
Un’altra da ragazzo.
Un’autostrada che corre lungo il mare, poco dopo l’alba.
Quella sciagurata di Laura, la mia ragazza scostante che mi lasciava per poi riprendermi subito dopo, guidava troppo veloce e non seppe gestire una sbandata; ci ribaltammo nel bel mezzo di una curva, durante il sorpasso a un autotreno: una capriola rumorosa e poi la mia bella Ford Escort verde metallizzato, con la quale avevo rimorchiato le prime ragazze, nella quale avevo sperimentato la camporella nei boschetti della Brianza, terminò la propria corsa e la propria vita sul ciglio della strada. Dall’autoradio usciva ancora la melodia di una canzone: The best has yet to come, il meglio deve ancora venire. Non si riferiva a quella vacanza, sicuramente.
Me la cavai con lividi e graffi, e restai vivo; messo sicuramente meglio dell’ammasso di lamiera accartocciato che era la mia automobile.
Mnetre il carro attrezzi la portava dallo sfasciacarrozze, ripensai ai primi faticosi tentativi di coordinare i movimenti acceleratore-frizione-cambio-frizione-acceleratore.
Un’altra volta ancora, questa in mare aperto.
Navigai il mio battesimo del mare su onde altissime sollevate da un libeccio infuriato al largo di Livorno, in una notte di fine ottobre: il cielo nero era punteggiato di stelle e le onde spazzavano il ponte della piccola barca a vela, inondandoci di acqua gelata e salata. Mi sembrava tutto meravigliosamente avventuroso e non notavo il volto pallido dello skipper che, bestemmiando, cercava di tenerci a galla.
Poco più al largo un’altra barca meno fortunata si rovesciò, regalando al fondo due vite giovani ed esperte di vela.
Io, invece, posai immeritevole i piedi sulla terra di Capraia e mangiai e bevvi come solo gli stolti ignari della propria fortuna sanno fare.
Non mi rendevo ancora conto di essere un moderno Giona, con un conto aperto nei confronti di un Dio dispettoso, che ti fa sfiorare la fine per poi obbligarti a continuare il cammino.
Anni dopo, mi si suggerì di fare testamento: avevo un brutto male e mi restava evidentemente poco.
Scrollai le spalle, indifferente alla vita, mentre tutti intorno cadevano nella prostrazione. In tv c’erano le Olimpiadi di Atlanta e, sinceramente, ero interessato più a quello che al mio sangue: fatti due conti, in quel momento della mia esistenza, non avevo molte ragioni che mi tenessero aggrappato alla vita.
Una chiusura, in quel momento, avrebbe rappresentato per me motivo di sollievo.
Avevo deciso di lasciare che le cose succedessero, senza provare a governarle: governare la vita, un’ossessione presuntuosa che avevo avuto fino a quel momento, retaggio del carattere volitivo di mia mamma: tutto si può condurre in porto, basta volerlo.
Decisi di lasciar perdere, di fare lo spettatore.
Passai mesi a guardare il culo delle infermiere che si avvicendavano al mio capezzale, mentre la mia vita scorreva vicina al limite finale; ci riflettevo come fosse quella di un altro sconosciuto, mentre i miei cari facevano voti mercimoniali con Dio.
Un genio invasato, luminare in missione, mi prese per i capelli e mi salvò, senza salvare i miei capelli biondi.
Poi, lo stesso genio missionario, morì lasciandomi la rabbia di una gratitudine non voluta e non risolta. Lasciando a me la vita, senza che io sapessi che farmene.
Negli anni a seguire affinai la mia capacità di sopravvivere, senza tuttavia imparare mai a vivere davvero: un essere sospeso, senza soluzione e senza pace.
Fu un continuo sopravvivere a una morte silenziosa, indolore, metafisica. Una morte somministrata dalle delusioni, dall’insoddisfazione, dal dolore, dalla negazione di sé, dalla solitudine.
Un continuo cadere e rialzarsi, cercando nuovi obiettivi, sperperando altro entusiasmo, offrendo aspettative e cercandole, vanamente, negli altri. Un avvelenamento sistematico di quei sogni del bambino che ciucciava la caramella.
Senza smettere di sentirsi Giona, senza smettere di maledire quella vita e al tempo stesso lottare epr cercare di onorarla.
Una morte senza morte, una vita senza vita; un procedere incessante, ottuso, alla ricerca di motivazioni surrettizie che mi ha condotto alla consapevolezza di non saper fare la cosa più semplice, la più umana.
Morire.
E di questo ho paura.
Perché adesso
sono stanco.
Già pubblicato su:
http://sigmachronicles.blogspot.it/2017/09/tu-non-sai-morire.html?m=1