Avrai

Avrai

[A Rachele]

 

Ad ogni fulmine che saetta fuori dalla finestra, si rannicchia contro il mio petto, nascondendosi nel mio abbraccio fino a quando il fragore del tuono non si é dissolto nel grigio del cielo. Poi riemerge dal nascondiglio, mi guarda con occhi verdi e vivaci, la bocca spalancata, con i riccioli biondi che le cadono sulla fronte. Mi stupisco sempre della sua mimica facciale. Sorride divertita, prima che un nuovo fulmine la convinca a rintanarsi  – ridendo – di nuovo contro di me. Io la abbraccio e la tengo stretta, respiro il suo profumo, come se cercassi di tenermela vicina per tutta la vita.

Dopo, quando il nubifragio é scivolato a nord-est, restiamo proni uno accanto all’altra, puntellati sui gomiti, le mani come appoggio per il mento; guardiamo fuori, oltre la finestra, oltre il diluvio che sta scaricando le ultime gocce sulla città. La sento vicina, Rachele, e mi sembra logico avere una figlia, adesso. Mi sto abituando alle sue risate, alla sua allegria, alle sue parole svelte, alla sua mimica plateale ed ingenua.

 

Avrai sorrisi sul tuo viso come ad agosto grilli e stelle. Non credo che esista al mondo una canzone con un incipit tanto bello, tanto bene augurale. Quando Claudio Baglioni scrisse Avrai, per la nascita del primogenito Giuseppe, io ero ancora un ragazzino inconsapevole che si esaltava per la recente vittoria della Nazionale di calcio al Mundial di Spagna. Ignoravo cosa la vita mi avrebbe riservato.

 

Tuttavia mi scoprivo meditabondo ogni volta che mi capitava di ascoltare questa canzone, intensa nella melodia e nelle parole. La percepivo dalla prospettiva del figlio, ovviamente, al quale un padre parla. Non capivo fino in fondo. Eppure, sdraiato sul letto, mentre il caldo dell’estate sfumava in un placido settembre, pensavo che sarebbe stato bello, un giorno, provare le stesse emozioni che avevano ispirato l’artista a scrivere quel brano. Non avevo bene presente di che sensazioni si trattasse, ma le riconducevo ad un legame protettivo.

 

Quando, ventisette anni dopo, nel parcheggio sotterraneo della Clinica Mangiagalli sentii quella stessa canzone, pur non essendo scaramantico né superstizioso, qualche dubbio a proposito dell’esistenza di un destino mi venne.

 

 

 

Tredici anni prima, ero seduto nell’ambulatorio del Prof. Pogliani, eminente ematologo dell’ospedale San Gerardo di Monza. Lo osservavo con indifferente silenzio, mentre esaminava gli esiti della mia biopsia: referti, radiografie, tac e tutto il resto. Scuoteva il capo, senza che questo gesto scalfisse minimamente la mia apatia. Era come se gli esami che aveva fra le mani fossero di qualcun altro, uno sconosciuto infelice e sfortunato appeso alla vita per un filo.

 

Pogliani spostò sulla fronte gli occhiali bifocali, si sfregò gli occhi, congiunse le mani e appoggiò i gomiti sulla scrivania. Mi fissò in silenzio per alcuni secondi, comunque troppo per la mia noia. Prese un lungo respiro e parlò con una voce profonda solo lievemente alterata dalla cadenza brianzola.

– Sigma, é grave. E’ molto grave.

Guardai fuori dalla finestra. Luglio era esploso; la sua luce violenta sbiancava ogni cosa, là fuori.

La voce di Pogliani mi scivolava addosso, elencando i passi della terapia e le conseguenze varie. Avrei perso tutti i capelli e sarei dimagrito tantissimo.

– Inoltre, con grande probabilità, la chemioterapia ti renderà sterile.

Inarcai le sopracciglia, stupito dall’inattesa gravità della sue espressione, così distante dalla mia preoccupazione. Mi sembrava peggio perdere i capelli.

 

Rinunciare alla fertilità a 29 anni, non si presentava come una gran perdita, per me. Per gli orizzonti che avevo. La sconfitta della cura contro il mio male mi sembrava la prospettiva più allettante. Ero infelice, stavo con una ragazza complicata che probabilmente non mi amava, non riuscivo a laurearmi e avevo un lavoro disgustoso. Avrei perso i capelli, avrei passato mesi a vomitare l’anima, avrei perso peso. Forse sarei morto. Fanculo ai miei spermatozoi, non me ne ero mai fatto un granché e non pensavo che li avrei mai usati. La natura, in modo beffardo e contorto, stava portando avanti la sua selezione: i geni di uno come me non avevano ragione di propagarsi.

 

Ma Pogliani non riusciva a sentire il rimbombare dei miei pensieri, e andava avanti imperterrito. Prese un foglio della sua carta intestata. Annotò sopra un paio di nomi ed un numero di telefono.

 

– Vai alla Clinica della Fertilità, in Mangiagalli. Fai il deposito del seme. Così, nel caso la terapia ti rendesse sterile, puoi sempre procreare.

 

Procreare. Pro-creare. A vantaggio di chi sarebbe avvenuta questa creazione? Quale figlio disgraziato avrebbe voluto avere un padre come me? Insicuro, egoista, senza progetti.

Non ebbi nemmeno la forza di rispondere, di spiegargli che non me ne fregava niente, che volevo correre a casa a guardarmi le Olimpiadi di Atlanta e dimenticarmi di quel pasticcio. Mi porse il foglio, con l’imperturbabilità di chi non riesce nemmeno a concepire di restare inascoltato.

Uscii dallo studio, confuso; infastidito – più che altro.

 

Ma ci andai, ci andai per l’insistenza di mia madre, testarda e ottimista come sempre. Ci andai per non sentirla più insistere, per placarla.

 

La Clinica della Fertilità constava ai tempi, di un lungo corridoio con delle poltroncine metalliche su entrambi i lati. In fondo ad esso, una scrivania che ricordava quelle della scuola, alla quale stava seduta una Dottoressa. Sulle poltroncine metalliche, solo coppie. Tutte coppie, mano nella mano, sguardi negli sguardi, cuori all’unisono, progetti condivisi, profusione d’amore. Tutti, tranne me. Solo e perplesso, fuori luogo come mi capita spesso di essere.

Quando la dottoressa mi chiamò, feci il corridoio ad occhi bassi, quasi strisciando i piedi. L’umidità di settembre era insopportabile in quell’androne in penombra. Mi porse un contenitore di plastica troppo grande per quello che avevo intuito ne fosse l’uso. E così, sotto gli occhi che volevo credere colmi di scherno di quelli che mi vedevano passare, strisciai in direzione dei bagni.

 

La cinematografia americana ha costruito una vergognosa mistificazione sui luoghi dove viene fatta la raccolta del seme: un ambiente patinato, riviste pornografiche sui tavolini, infermiere discinte e seducenti, poltrone ergonomiche di pelle dai colori neutri.

 

Niente di tutto ciò. Ovviamente.

 

In piedi, in un cubicolo con tanto di turca, i muri scrostati, con i pantaloni abbassati al ginocchio, misi le basi per una mia eventuale futura paternità.

 

 

 

Avrai sorrisi sul tuo viso come ad agosto grilli e stelle. La musica usciva dagli altoparlanti nascosti dietro le colonne di cemento. Il parcheggio seminterrato fra i Giardini della Guastalla, la Clinica Mangiagalli e la Sinagoga di Milano, era sempre animato da un viavai di macchine. Eppure, colsi subito la voce roca e vibrante di Claudio Baglioni. Riconobbi immediatamente la canzone, e mi dissi “Allora ci siamo”.

 

Alla reception della Mangiagalli venni a sapere che ora il materiale biologico congelato veniva conservato alla Clinica Regina Elena, sull’altro lato della strada. A quel punto, mi rassegnai all’idea di essere all’interno di un Disegno: io sono nato alla Clinica Regina Elena di Milano, una piccola premura dei miei genitori che – per il loro primogenito – avevano deciso di non badare a spese.

 

Così finalmente vidi il luogo dove ero nato, che non avevo mai visto da quel giorno. Provai una strana vertigine, una suggestione forse: come rinascere di nuovo, come ritornare alla vita dopo la malattia, dopo la paura. Ritornare alla vita in un modo diverso, come padre, come futuro padre, o – almeno – come potenziale padre. Una rinascita, una trasumanazione dolorosa.

 

Vidi la mia città dall’alto, la mia vita fino a quel momento, tutte le certezze che stavo rimettendo in discussione. Le abitudini egoiste, pizzetta-cinemino, l’happy hour milanese del venerdì sera, i brunch con gli amici, le notti a tirar tardi e le mattine a dormire fino a mezzogiorno, i week end lontano da casa, le domeniche allo stadio. Chiusi gli occhi e tirai un sospiro profondo. Dimentica tutto, Sigma.

 

Lottai contro i miei demoni: quelli che mi chiedevano con che coraggio osassi trascinare in questo mondo confuso un essere innocente che non aveva chiesto di nascere. Quelli che sventolavano la paura di non aver ricevuto sufficiente amore per poter restituirlo a qualcuno di cui non conoscevo ancora nulla. Il timore di annullarmi con troppe rinunce. La paura di fallire come padre, o – peggio ancora – che il percorso della fecondazione assistita si rivelasse un calvario per me e la mia compagna e si concludesse con un fallimento.

 

La paura di fallire e la paura di riuscire, insomma.

 

E poi, un tardo pomeriggio dei primi di gennaio mi ritrovai in mano una creatura grinzosa, che strizzava gli occhi alla prima luce, e miagolava come Billie Holiday. Guardai oltre la sua pelle ancora grigia e imbrattata di liquido amniotico, la avvicinai al petto per percepirne tutta la fragilità. “Chi sei tu, piccola sconosciuta che viene a sconvolgermi la vita?” Aprì gli occhi e mi fissò, sicuramente senza vedermi distintamente, e miagolò.

 

Adesso che sono sul letto, ad osservare il temporale che scroscia nella notte estiva, e lei mi é accanto e ride e mi chiama papà, nemmeno ricordo come fosse la mia vita prima di lei. Mi guardo indietro e rido delle paure che mi avevano assalito e mi sento sciocco per aver visto ciò che stavo perdendo, senza capire ciò che stavo per guadagnare.

 

E quando voglio andare a prendermi un aperitivo, beh, lei é sempre lì con me a sgranocchiarsi patatine.

Di Simone Cozzi

Simone

Simone Cozzi è nato a Milano il 17 agosto 1967 e ha una laurea in Economia e Commercio. Ha una figlia, Rachele, che é il suo grande amore.

E’ appassionato di musica, fotografia e viaggi, oltre che di scrittura creativa. Milanista sfegatato, adora i Martini Cocktail.

Dal 2013 cura il blog Le cronache di Sigma.

Nel 2014 ha preso parte al Cochonnerie-Labile Collettivo che ha pubblicato Fatti Mangiare Dall’Amore, con Feltrinelli.

Nel 2015 ha pubblicato, con Panda Edizioni, La pace inquieta, il suo primo romanzo, di cui sta preparando un adattamento teatrale.

Nel 2017 uscirà il secondo romanzo, intitolato Doppio strato, edito anch’esso da Panda Edizioni”.

Simone è un ottimo scrittore/narratore ed è anche un amico. Potrete trovare i suo racconti e anche quelli di altri scrittori sul sito: Le cronache di Sigma

Con questo racconto inizia la collaborazione fra le cronache di Sigma e Storie qualunque. Ovviamente questo sito sarà aperto e pronto a raccogliere racconti di altri scrittori/narratori

 

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