Sudore

Soffia un vento forte a Milano oggi.

Un vento caldo che pulisce l’aria e fa apparire le montagne, di solito nascoste dal grigiore dell’inquinamento anche nelle giornate di sole.

Un bello spettacolo agli occhi delle persone che lo osservano dai sedili delle loro automobili, bloccati in tangenziale nel traffico delle 18.

Lui invece non lo osserva, guarda dritto la strada mentre parla da solo, chiuso in quell’abitacolo.

Una goccia di sudore cola dalla fronte, mentre pronuncia improperi a voce bassa, ma con scatti aggressivi del corpo, aumentando l’intensità delle parole e alternando le mani sudate tra la faccia e il volante. Le parole sono indirizzate a un’unica destinataria: la moglie.

Se non fosse per la distrazione dello spettacolo delle montagne, del cellulare o dell’invio di sms da parte degli incauti automobilisti che lo affiancano, forse verrebbe notato.

Suda, nonostante i finestrini aperti e il vento che rinfresca la carreggiata, agitandosi parecchio, ma non a causa della strada bloccata.

Non pensa ad altro: lei, sua moglie, la madre di sua figlia, la sua amata, sua, sua, sua.

Come cazzo si è permessa di lasciarlo? Poi per cosa, per quale motivo?

L’ho sempre riempita di regali e attenzioni. Non le ho mai tarpato le ali. Anzi, ho appoggiato il suo rientro al lavoro dopo la nascita della nostra bambina, nonostante sarebbe bastato per vivere ciò che con il mio lavoro porto a casa. Ho anche acconsentito a darle una certa dose d’indipendenza, mica sono un negriero io.

“Certo, quando ho visto che cominciava a frequentare alcuni colleghi e ci andava a pranzo insieme, qualcosa da dire l’ho avuta.

Sono un marito controllante! Questo mi ha detto la stronza. È un male essere un po’ geloso? Solo perché non mi fido dei suoi colleghi di lavoro? Ma va al diavolo. Sono maschi, lei non può capire quanto se la vorrebbero scopare. Non è un uomo.

Poi capisco la sua voglia di non dipendere dal mio stipendio, è giusto che contribuisca alle finanze famigliari, ma non a scapito del nostro rapporto. Da quando è andata a lavorare in quel luogo, la nostra relazione è cambiata. Sono iniziate le litigate, le discussioni e infine ho iniziato a perdere la calma.

Poi cosa significa perdere la calma? In una coppia che si vuole bene, le liti ci possono essere, fanno parte del gioco. In fondo, sono solo dei momenti che poi passano. Si alza la voce, ci si manda a quel paese e poi, va bene, si esagera un po’ con i toni, si tira qualche pugno sui muri o sulle porte, ma sono solo gesti di stizza, valvole di sfogo. Ecco, in quei momenti, una donna dovrebbe capire che è meglio lasciar correre, acconsentire a ciò che il marito dice, farlo calmare. È così da sempre o no? Invece…”

Mentre prosegue il monologo con sé stesso, il sudore cola più copiosamente, nonostante i finestrini dell’auto siano tutti aperti e il traffico, finalmente, abbia iniziato a scorrere e l’accelerazione sulla sua corsia faccia passare dai finestrini un po’ di aria. Non è solo il calore a fargli perdere liquidi. Gli occhi sembrano fissi sulla strada, ma guardano altro.

“Le ho chiesto solo di comportarsi come una brava moglie, esattamente come ci siamo promessi il giorno del nostro matrimonio. Invece, ha iniziato a fare sempre di testa sua, a non ascoltarmi, a darmi addosso. Ha iniziato ad alzare la cresta. Ho cercato di farle capire che doveva portarmi rispetto come io lo porto a lei, che le mie preoccupazioni sono fondate e che doveva rientrare nei ranghi.

Sì, ho usato parole forti, l’ho insultata davanti a nostra figlia, ma ero nervoso, lei mi provocava ribattendo a ogni mia parola, in modo a volte aggressivo. A me, che le ho regalato la vita, innamorato dal primo giorno in cui i miei occhi hanno incrociato i suoi. A me, lei urlava che voleva separarsi, di non poterne più. A quel punto mi son morso le labbra e ho stretto i pugni.”

Parla ad alta voce mentre un’auto familiare si affianca alla sua e un bambino lo osserva e prova ad ascoltare le sue parole, stupito e incuriosito, fino a quando lui non imbocca l’uscita della tangenziale e le loro strade si dividono verso direzioni opposte. La camicia che indossa è fradicia e attaccata al sedile dell’auto. Man mano che si avvicina alla sua destinazione suda con maggior vigore. A guardarlo, nonostante sia seduto senza fare nessun sforzo fisico, pare quasi un maratoneta che sta per compiere l’ultimo chilometro della sua gara. L’ultimo chilometro.

“Sì, le ho dato uno schiaffo. Poi ho abbassato la mano aperta, incredulo. Bruciava, la mia mano, scottava, come se volesse inviarmi un segnale: che cazzo ho fatto?

Non avevo mai colpito nessuno in vita mia. Lei si teneva la guancia allontanandosi impaurita. Ho provato a scusarmi immediatamente, non volevo, non so cosa mi sia preso, volevo abbracciarla e tranquillizzarla. Lei ha continuato a dire di starle lontano e di non farle del male, fino a quando si è chiusa a chiave nella sua stanza.

Farle del male? Io? Ho continuato a bussare a quella porta, cercando di convincerla ad aprirmi e a darmi l’opportunità di potermi scusare.

Niente. Chiusura totale. Non solo della porta. Ho iniziato a bussare con più forza, doveva aprirmi, avevo il diritto di spiegare le mie ragioni, non sarebbe più successo. Uno schiaffo! In fondo, mica l’avevo ammazzata.

Mi urlava di smettere e che avrebbe chiamato la polizia. I colpi e le mie urla hanno spaventato nostra figlia che sentivo piangere, dentro la stanza.

Alla fine, la polizia, la stronza l’ha chiamata davvero e sono stato allontanato da casa con una diffida ad avvicinarmi per un certo periodo di tempo e con la minaccia di essere arrestato. Ma stiamo scherzando? Un normale diverbio tra marito e moglie che si trasforma in un marchio di infamia per il sottoscritto. Porca troia! Maledetta! Avrei dovuto dargliene di più di schiaffi. Io non ho sbagliato nulla. Difendo e difendevo il nostro matrimonio. La separazione. L’ha chiesta veramente. Se pensa che gliela conceda si sbaglia di grosso. Lo so che mi ama ancora e se così non fosse, comunque, l’ultima parola spetta a me.”

La macchina ora entra in un paese, costeggiando marciapiedi del centro, dove ai tavoli dei bar ha inizio il rito dell’aperitivo. La giusta conclusione di una giornata di lavoro o di studio. Per un attimo, un solo istante, lui guarda quelle vite sedute ai tavoli. Una frazione di secondo, poi torna ai suoi pensieri. Il sudore ora inizia a esser freddo.

Allontanato da casa come un mostro.

È fermo parcheggiato sul lato opposto della strada. Davanti a lui una villetta come molte altre a far da cornice al viale. Ha appena staccato il cellulare dall’orecchio, asciugando il vetro sulla camicia. Cerca di ricomporsi. Vuole essere presentabile. Lei ha acconsentito a parlargli. Si pettina.

Da un bar a fianco, si leva un grido verso un passante sul marciapiede di fronte. Un grido in dialetto milanese da parte di un frequentatore del bar, che invita il passante a farsi un cicchetto. Quella voce lo fa sobbalzare, facendogli cadere il pettine.

Eccola! Ha aperto il cancello e gli fa un cenno con la mano per dirgli di avvicinarsi. Il suocero osserva la scena dalla finestra di nascosto, dietro una tenda. Ma lui non se ne accorge.

Gli occhi sono fissi su di lei. Quanto è bella! Si, ha il viso che fa passare tensione e preoccupazione, ma è sempre il viso di cui è stato innamorato.

Scende dall’auto e si avvia verso il cancello. Si guarda attorno, accorgendosi che per essere una via di solito con poco passaggio, quella sera è abbastanza movimentata.

Ora è quasi vicino al cancello e le sorride, mentre lei risponde con un cenno da dietro il cancello. Sono uno di fronte all’altra, divisi solo da sbarre di ferro.

Iniziano a parlare e lui la invita a uscire. Lei muove la testa in senso di diniego. Da dietro quel cancello non si sposterà.

Lui riprende il discorso, deciso ma apparentemente tranquillo. Chiede come sta la bambina e come se la stiano passando. Poi riparte alla carica, chiedendole di rinunciare alla separazione. Non può vivere senza di lei, senza di loro, senza la loro casa. La scongiura, la prega. Ora il sudore ha ricominciato a gocciolare dalle tempie a ogni loro vibrazione.

Niente. Lei non vuole tornare con lui. Gli ricorda che non dovrebbe trovarsi lì e delle minacce che, dopo la l’ultima lite, quella dell’allontanamento da parte della polizia, ha continuato a farle attraverso telefonate e tutte le volte che le è apparso davanti. Non urla. Mantiene un tono pacato, ma deciso.

Lui è rosso in faccia, si agita, cercando di mantenere un tono di voce basso. Continua a muovere una mano, mentre l’altra è in tasca da quando è arrivato di fronte all’abitazione.

È il momento di fare ciò per cui è lì e fanculo a tutto.

Va bene, china il capo per qualche secondo. Lo ritira su e annuendo, rivolgendosi a lei, dichiara la sconfitta. Accetta la separazione.

Il suocero, da dietro la tenda, continua a osservare il tutto. È inquieto e suda anche lui.

Adesso le tende una mano attraverso il cancello. Lei si fida e gliela ricambia stringendola.

È un attimo. Con forza la tira verso il cancello e dalla mano nella tasca, estrae un coltello che le pianta nella pancia. Due coltellate e molla la presa.

Il suocero dalla finestra comincia a urlare, accompagnato dalle urla di dolore di lei.

Lui getta il coltello e inizia a correre verso la macchina, ma non ci arriva. Le grida hanno richiamato le persone all’interno del bar che, uscendo di corsa, lo bloccano mettendolo a terra. È madido di sudore. Lo sono tutti.

In carcere apprende che la moglie non è morta. Inizialmente è guardato a vista. Hanno paura che possa fare qualche gesto inconsulto. In realtà non ne ha nessuna intenzione. Non è pentito e non crede di avere sbagliato. Nel suo mondo, nel suo modo di vivere, nonostante abbia studiato e creda nell’indipendenza da parte di tutti, una cosa del genere non doveva succedere. Non è un maschilista lui, ne è sicuro. È uno che voleva salvare il suo matrimonio, salvare ciò che era suo. Suo.

Lo ha detto anche agli psicologi del carcere.

Dopo molti colloqui ha cominciato a capire di aver commesso qualcosa di sbagliato, anche se non ne è ancora del tutto convinto.

Femminicidio, così gli hanno detto. È andato a leggersi il termine, perché non lo conosceva. Sudava mentre le parole scorrevano. Era lui quello lì, quello della definizione. Ha rivisto la scena, per intero. Gli occhi terrorizzati di lei e la sua mano implacabile. L’odio, la rabbia, l’incapacità di accettare il rifiuto. Vorrebbe rimediare, ma non può. Può solo asciugarsi la fronte e avviarsi al colloquio con la psicologa. “Va bene, ho deciso, ho bisogno di parlare di quello che ho fatto. Parteciperò al gruppo”.

La consapevolezza della gravità degli atti commessi, del reato e la presa di responsabilità, sono il terreno, l’unico, su cui provare a ricostruire l’abilitazione degli uomini maltrattanti. La capacità di accettare il rifiuto, di comprendere e rispettare l’autonomia dell’altra/o, un passaggio obbligato.

Non esiste riabilitazione senza consapevolezza. Non esiste perdono senza pentimento.

Rocco Carta

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